«In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza»
Laurence J. Peter
Esattamente un mese fa, l’8 aprile, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha definito dittatore il presidente turco Erdogan.
contattL’affermazione, pronunciata en passant in occasione della triste débacle del cerimoniale europeo ad Ankara e apparsa decisamente fuori luogo o quantomeno «irrituale» alla maggior parte degli osservatori indipendenti, ha tuttavia subito una curiosa elaborazione da parte della stampa nostrana.
Quella che probabilmente è stata solo una gaffe (anche di una certa gravità e non certo l’unica dei primi mesi di governo) è stata infatti interpretata dai commentatori come una stoccata studiata attentamente da un leader che ha voluto mettere il Governo, il Parlamento e tutta la nazione di fronte alla responsabilità di essere capofila di una vera e propria crociata contro i regimi illiberali.
A un mese di distanza è chiaro che l’uscita di Draghi non costituisse affatto l’avvio di una campagna di sensibilizzazione o, addirittura, il prepotente imporsi dell’Italia come nuova potenza emergente sullo scacchiere del Mediterraneo, «pronta a contendere, come un secolo fa, l’egemonia del mare al nemico ottomano».
Liberi perciò dalla coltre di fumo dell’illusionista, possiamo analizzare questo storytelling, al di là delle considerazioni sull’attuale sudditanza della politica e dell’informazione di fronte all’indiscutibile prestigio dell’attuale premier, e renderlo un esercizio che possa servire a riflettere sul rapporto che lega il prestigio alla competenza e sulle ricadute che questo rapporto può esercitare sul’equilibrio democratico.
Confondere prestigio e competenza
Prestigio e competenza possono naturalmente coincidere ma questa coincidenza non costituisce una condizione necessaria, soprattutto in una realtà in cui la stampa raddoppia sempre la posta su ogni personaggio che in un dato momento si trova ad attraversare un particolare periodo di grazia e di consenso.
Del resto, cos’è il prestigio in una realtà sociale in cui non c’è memoria?
In una famosa intervista che concesse alla giornalista Milena Gabanelli,l’ex ragazzo d’oro della finanza italiana, Matteo Arpe, richiamò l’attenzione su una grave criticità culturale dell’Italia:
Direi che da noi eccelle il desiderio di compiacere la politica, o ai vari poteri, pensando di averne dei ritorni. Succede ovunque, ma altrove la referenza politica è confinata al suo livello di competenza. Quando diventa l’unico driver non ci sono più i requisiti necessari per crescere. Quello che manca in Italia, e vale tanto per i giovani quanto per i più anziani, è un concetto di accountability, ovvero quello che è successo negli ultimi anni viene dimenticato, si riparte sempre da zero.
Mai come ora, ci accorgiamo che nelle società in cui prestigio e competenza si mischiano, succede che chi è portatore di una particolare competenza specifica può essere non solo apprezzato per quella competenza, ma in uno strano effetto traino, viene considerato Competente in senso assoluto.
Certamente, spiccare in una particolare competenza è il segno di una brillante intelligenza e di una spiccata attitudine allo studio; doti queste che possono essere orientate, anche con risultati eccellenti, nella risoluzione di problemi che con quelle competenze hanno meno famigliarità.
Tuttavia gli esiti possono essere preoccupanti quando, nell’immaginario collettivo, la differenza tra le singole competenze specifiche si stempera in un culto fideistico verso il personaggio del momento, portatore di una competenza specifica che viene considerata come una dimostrazione di tutte le altre.
Il percorso tipo prevede prima l’accettazione incondizionata di qualsiasi provvedimento che provenga dal competente di turno e, ancora peggio, la giustificazione cieca di ogni suo errore; infine, superato il punto massimo di rottura, sopraggiunge la demolizione del personaggio.
Il sottoprodotto tipico di una società che funziona in questo modo è la ricerca continua e spasmodica di un nuovo Competente da mandare al vertice ogni qualvolta il Competente precedente fallisce.
Quello di spingere in alto nella scala gerarchica chiunque eccella in uno dei gradini immediatamente inferiori non è comunque un tratto specifico delle organizzazioni disfunzionali ma è un comportamento sociale universalmente diffuso che è stato studiato dallo psicologo Laurence J. Peter e che viene volgarmente chiamato «massimo livello di incompetenza»: un meccanismo che porta le organizzazioni di rimuovere i profili più efficienti dai ruoli che occupano per portarli in ruoli di maggiore responsabilità o di maggiore criticità.
Il risultato è che ci si trova quasi certamente a peggiorare le funzioni che funzionavano bene, senza avere alcuna certezza di migliorare le funzioni strategicamente superiori: è il caso dell’eccellente tecnico che, promosso a direttore tecnico, si trasforma in un pessimo dirigente.
Una dimostrazione sperimentale di questo principio è stata curata dai ricercatori Alessandro Pluchino, Andrea Rapisarda, Cesare Garofalo (cfr The Peter Principle Revisited. A Computational Study, in Physica A, vol. 389, n. 3, 2010, pp. pp. 467–472, DOI:10.1016/j.physa.2009.09.045. arΧiv:0907.0455) che per questa ricerca hanno addirittura conseguito i prestigioso, per quanto eccentrico, Premio IgNobel
In un altro articolo (Alessandro Pluchino, Andrea Rapisarda, Cesare Garofalo, Salvatore Spagano e Maurizio Caserta, L’efficienza del caso, Le Scienze, gennaio 2013), i ricercatori hanno addirittura dato il resoconto di un altro esperimento, applicando lo studio dei sistemi complessi all’efficienza di un ipotetico Parlamento (efficienza misurata su coefficienti stabiliti in base al combinato di proposte di legge approvate e il conseguente benessere sociale stimato). Le simulazioni hanno mostrato che l’efficienza di questo «Parlamento» raggiunge il massimo con un numero ottimale di parlamentari estratti a sorte e non aderenti ad alcun partito. In pratica, un parlamento creato casualmente sembra il più adatto a governare una realtà che è fondamentalmente governata dal caso!
Ma un Parlamento scelto a caso è possibile? E un Governo scelto a caso?
No, probabilmente no. Vi sono diversi aspetti che inducono a pensare che una soluzione del genere sia ricca di criticità. Tra esse, l’eventuale obbligatorietà del «servizio parlamentare», la tenuta «psicologica» di cittadini scelti a caso di fronte alle responsabilità ordinarie o a quelle di natura eccezionale, la cultura media e la capacità di comprendere i procedimenti complessi dei meccanismi legislativi, il rischio di inquinamento delle selezioni, etc.
La questione non può però dirsi risolta: un affinamento delle tecniche di promozione e individuazione del personale direttivo, sia nella macchina amministrativa che in quella politica, deve per forza passare attraverso la riconsiderazione delle logiche attuali, basate sul prestigio e le competenze specifiche, ma anche e soprattutto sulla capacità di creare il consenso sulla nomina, sull’ambizione smodata, sulle capacità di operare pressioni su chi deve procedere alla nomina degli incaricati.
Draghi e il massimo livello di incompetenza
Ritornando al tema principale, Draghi ha probabilmente raggiunto il proprio «livello massimo di incompetenza».
Gli organi di stampa hanno paura di dirlo perché la Politica ha un’ovvia paura di farlo trapelare! Il risultato è che a causa dell’impossibilità di reperire tra le riserve della politica un personaggio di spessore, ci siamo privati di quello che poteva essere certamente un ottimo ministro dell’economia o di un ottimo banchiere, per ottenere un Presidente del Consiglio con delle tare di carattere politico che di certo potrebbero danneggiare la tenuta e la credibilità del Paese.
E non consola il fatto che purtroppo le alternative siano probabilmente tutte di qualità inferiore!
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