Fenomeni quali hacktivism, democrazia diretta, partecipazione viaggiano spesso su strade differenti a causa della difficoltà di ricondurle su un unico piano.
Come spesso accade, tuttavia, è la realtà tende a riportare rivoli diversi in un unico fiume, quello dell’universo digitale, un nuovo corso (trent’anni di digitalizzazione di massa sono un battito di ciglia nella storia) in cui le regole si stanno delineando in base ai rapporti di forza dei principali attori, come è sempre avvenuto in qualsiasi realtà sociale.
Il cosiddetto hacktivism (o attivismo digitale, o attivismo cibernetico) è in definitiva un modo per usare gli strumenti digitali per irrompere nella realtà e determinarne sia un aumento di consapevolezza sia un cambiamento. I fenomeni della democrazia diretta e della partecipazione sono invece strumenti di cambiamento dei processi deliberativi e di quelli della concertazione tra portatori di interesse.
Quando gli ultimi due si avvalgono degli strumenti tecnologici disponibili, diventa però difficile distinguerli da quello che viene definito con l’espressione hacktivism.
Petizioni: partecipazione e democrazia diretta
Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità.
Costituzione della Repubblica Italiana, art. 50
«Qualsiasi cittadino, o qualsiasi persona giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro dell’Unione europea ha il diritto di presentare una petizione al Parlamento europeo»
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 44
Una petizione può essere una semplice raccolta di firme finalizzata a sensibilizzare un’istituzione o un’organizzazione su un particolare argomento ma può anche essere un vero e proprio dispositivo di democrazia diretta e partecipazione.
Negli ordinamenti statali la petizione è spesso una modalità estremamente sottovalutata ma anche l’unica che consenta a un certo numero di cittadini di adire agli atrumenti di democrazia diretta. La stessa raccolta delle firme per la presentazione di quesiti referendari costituisce a tutti gli effetti una petizione, opportunamente normata dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie, per richiedere una consutazione pubblica riservata a tutto l’elettorato.
La petizione riguarda anche la richiesta di discussione di leggi di iniziativa popolare, un istituto che in Italia è stato finalizzato solo in occasione del V-Day tenutosi l’8 e il 9 settembre 2007, ma l’unica volta che il testo di una legge di iniziativa popolare è stato portato in Parlamento, non è stato comunque discusso, non contemplando la Costituzione alcun obbligo in tal senso.
A una sostanziale ignoranza del pubblico riguardo questi due importanti istituti, fa da contraltare la fequente circolazione di petizioni on line fatte circolare in passato via email e oggi attraverso i sistemi di messaggistica e, soprattutto, attraverso i social network.
Petizioni on line e dati personali
Le petizioni on line possono essere sottoscritte solitamente con nome, cognome e con un riferimento email e sono state impiegate da diversi attivisti e organizzazioni per raccogliere un numero di adesioni enormemente più alto rispetto a qualsiasi petizione cartacea. In alcuni casi hanno effettivamente contribuito addirittura a conseguire l’obiettivo di sensibilizzare i governi, di arrestare la promulgazione di leggi discutibili, di far sospendere a qualche azienda iniziative spregiudicate o campagne pubblicitarie offensive.
Tuttavia la gestione e la rivendita dei dati personali da parte dei principali operatori del settore ha provocato accese critiche da parte di diversi attivisti digitali.
Accumulando dati dai propri utenti e da tutte le petizioni che essi hanno creato o sottoscritto, i gestori delle piattaforme di petizioni on line dispongono di un profilo politico estremamente dettaglliato degli “attivisti” che hanno utilizzato quei servizi.
Tale gestione è giustificata da esigenze di personalizzazione specifiche, alcune piuttosto banali (chi firma una petizione contro un politico di destra sarà interessato ad altre petizioni contro quel politico o contro altri politici di destra), altre molto meno (sembra che chi firma una petizione per i diritti degli animali abbia 2,29 volte più probabilità di firmare una petizione per la giustizia penale e chi firma una petizione per la giustizia penale, ha 6,3 volte più probabilità di firmare una petizione per la giustizia economica e 4,4 volte più probabilità di firmare una petizione per i diritti degli immigrati; e quattro volte più probabilità di firmare una petizione per l’istruzione).
Tali dati però non servono solo a suggerire petizioni in linea con il profilo dell’utente ma anche per associare il profilo a particolari annunci pubblicitari. La gestione di tali introiti è inoltre poco coerente con l’immagine “etica” che queste piattaforme vogliono offrire ai pubblico.
Un’approfondita inchiesta condotta dalla giornalista Cecilia Ferrara e pubblicata su IRPImedia (Investigative Reporting Project Italy) ha infatti sollevato dubbi molto pesanti sulla scarsa attenzione che alcuni di questi gestori hanno mostrato nella gestione finanziaria, avvalendosi di conti correnti ospitati da paesi dotati di sistemi bancari opachi e discutibili.
Il problema principale però non è costituito solo dall’analisi comportamentale dei propri utenti o dalla gestione finanziaria, ma anche dalle preoccupazioni legate alla possibilità che paesi guidati da governi autoritari o insensibili allo stato di diritto possano impadronirsi dei dati degli utenti per perseguitare chi sostiene determinate cause.
Come dimostra la poca prudenza del pubblico dei social network, il mix di dati personali e convinzioni politiche è pericolosissimo per la tutela dei diritti e delle libertà personali.
[EDIT 10/6/2021:] Ad oggi, l’unica alternativa etica che abbiamo individuato nel mondo delle petizioni on line è costituita dalla piattaforma tedesca Open Petition, che sembrerebbe disporre di un modello operativo e di una politica per il trattamento dei dati compatibile con le migliori attese. fatte salve le alternative “etiche”, il punto da affrontare è tuttavia quello delle controindicazioni “politico-sociali” di promuovere un modello come quello delle petizioni on line, il modello cioè del “passivismo”…
[EDIT 5/10/2022:] Abbiamo trovato un interessante thread di Federico Fuga che per la sua chiarezza, merita di essere citato in questo post, con la speranza che la maggior parte dei lettori possono convincersi di quanto sia non solo inutile ma soprattutto dannoso avviare petizioni su change, firmarle e diffonderle presso i nostri contatti:
Hactivism o… passivism?
Esiste infine una questione legata all’ipersollecitazione verso il pubblico, mirata a far prendere posizione attraverso una spinta emotiva forte, ma con un coinvolgimento complessivo molto debole: nel mondo anglosassone questo approccio viene chiamato slaktivism (dall’unione delle parole inglesi slacker e activism, letteralmente “attivismo per fannulloni”) o clicktivism (o, alle nostre latitudini, attivismo da divano).
Se in sé può sembrare un aspetto poco più che colorito, lo slacktivism può nascondere insidie pericolose: Micah White sul Guardian sostiene a ben vedere che “scambiando la sostanza dell’attivismo con banalità riformiste che vanno bene nei test di mercato, i clicktivisti danneggiano ogni movimento politico autentico che toccano“.
Gli effetti di questa deresponsabilizzazione a portata di click non sono tuttavia solo quelli di una diluizione dell’attivismo tradizionale e di una negazione vera e propria della partecipazione attiva, come suggerito da White ma possono determinare un recupero grezzo (e non lavorato) di quel tipo di cittadino più pericoloso per la democrazia: quello che si tiene lontano dalla democrazia perché la ritiene troppo faticosa.
Democrazia diretta e strumenti digitali
Prima di giungere alla conclusione è opportuno accennare brevemente non tanto all’argomento costituito dallademocrazia diretta, che merita di essere affrontato con ben altri strumenti intellettuali e culturali, ma a due aspetti particolari della democrazia diretta esercitata (come oggi è necessario fare) attraverso strumenti digitali: quello della preparazione culturale dei partecipanti e quello della proprietà delle piattaforme di voto.
I cittadini che si avvalgono di strumenti di democrazia diretta deve essere non solo educati all’impiego dello strumento ma anche motivati politicamente e civilmente per acquisire quelle competenze di cittadino e di soggetto sociale che consentiranno loro di essere una comunità e non solo un’utenza.
Il rischio di produrre un’utenza disordinata è sempre molto alto e può essere superato solo con una scommessa sulla effettiva maturità di quell’insieme di soggetti. I sostenitori di un movimento politico possono essere un buon punto di partenza perché condividono almeno la motivazione di base e alcuni valori programmatici comuni ma a questo punto entra il gioco il secondo aspetto critico: la proprietà degli strumenti di aggregazione e voto.
Il caso della “piattaforma” Rousseau è stato oggetto di numerose critiche proprio nello specifico della proprietà dell’applicativo ma anche riguardo all’architettura software, chiusa e conosciuta solo ai proprietari della piattaforma.
Il “patto sociale” tra gli iscritti e la proprietà (non importa qui se del partito o della piattaforma) si fonda in questo caso sulla cieca fiducia che gli uni ripongono nell’altra ma come è stato sostenuto dai promotori del progetto Decidiamo, in una lettera aperta pubbicata sul quotidiano Domani, “Non dovrebbe essere previsto statutariamente che il Sistema Operativo informatico appartenga ad una specifica organizzazione bensì dovrebbe appartenere al MoVimento, che ne fissa le specifiche funzionali e realizzato/erogato da un fornitore (che potrebbe essere l’Associazione Rousseau). Il finanziamento del funzionamento della piattaforma dovrebbe essere trasparente. Il software dovrebbe essere a codice aperto ed ispezionabile, dovrebbe offrire la possibilità agli iscritti di verificare il proprio voto e certificato da una primaria società internazionale di sicurezza informatica“.
Chiaramente, i proprietari di una piattaforma chiusa dispongono di un controllo politico di carattere flussometrico, comportamentale e predittivo. Di fatto, un controllo totale sulla linea politica della comunità ma con la possibilità aggiuntiva di far ricadere le scelte e le responsabilità sugli iscritti.
Manipolazione e “abstention mining”
Se a tutto ciò si aggiunge la possibilità di rendere più determinanti i soggetti meno preparati all’esercizio del controllo democratico, emerge chiaramente come una tale comunità rischi di diventare una sorta di laboratorio peggiocratico.
Quando un cittadino non è pronto a prender parte attivamete ai processi democratici, si rende urgente e necessario spendere energie e risorse per istruirlo e prepararlo. Solitamente, per una specie di disegno intelligente della democrazia (o più probabilmente per una semplice conseguenza evolutiva dei gruppi sociali) i cittadini meno pronti sono anche quelli che spontaneamente si astengono dalla partecipazione attiva.
Questo è certamente un male: si priva la democrazia di potenziali risorse utili ad alimentare e a diversificare la “popolazione democratica”. Ma se ragioniamo sulla base della stabilità democratica, questo è anche un bene: l’ingresso massivo e quasi forzato di persone meno preparate nel gioco democratico porta sicuramente a una certa a instabilità.
Allo stesso modo, l’astensionismo è una malattia dei sistemi democratici, eppure bisogna ammettere che i cittadini più orientati all’astensione sono generalmente quelli meno adatti all’esercizio della democrazia. L’esperienza comune ci suggerisce che le persone meno propense a votare tendono a convinzioni e prese di posizione più irrazionali e fallaci rispetto a quelle della popolazione assiduamente legata al “rituale civile” del voto.
Lo scenario in cui il virtuale viene utilizzato come volano per portare gli individui meno preparati a partecipare ai processi democratici apparentemente ludici (quali sembrano quelli del voto elettronico) ma estremamente reali negli effetti, può trasformarsi in un acceleratore di particelle da usare per bombardare ad altissima energia qualsiasi barriera democratica.
Finzione e realtà. Parte I
Una recente iniziativa politico-comunicativa, che sta funzionando come un’estrattore di incompetenti, sembrerebbe proprio includere tutti gli ingredienti principali di cui si è parlato: la petizione, il clicktivism, la selezione e la motivazione di un elettorato impreparato.
Il meccanismo è semplice e possiamo sottoporlo a un processo di reverse engineering interessante:
sai che una mozione di sfiducia deve essere richiesta da almeno un decimo dei componenti di uno dei due rami del parlamento? No? Allora passa al punto successivo
sai che il popolo esercita la sovranità nelle forme previste dalla Costituzione? No? Allora passa al punto successivo
sai che una sottoscrizione on line camuffata da petizione non può sfiduciare neanche un comitato di quartiere e tantomeno un governo? No? Allora passa al punto successivo
sai che una “petizione” può essere un metodo per avere il tuo nominativo e i tuoi dati per sottoporti a pubblicità politica mirata? No? Allora passa al punto successivo
sai che questa “petizione” serve solo a far credere ai sottoscrittori di contare qualcosa anche se non è vero? No? Allora passa al punto successivo
sai che in questo modo le persone che crederanno di contare qualcosa penseranno che il politico che li ha coinvolti potesse effettivamente sfiduciare il governo? No? Allora passa al punto successivo
sai che quando il governo non verrà sfiduciato, le persone si sentiranno tradite e frustrate ma non dal politico che li ha presi in giro ma dal governo e dalle istituzioni? No? Allora passa al punto successivo
sai che quando il governo non verrà sfiduciato, il fallimento dell’iniziativa ricadrà sui mancati sottoscrittori e non sul politico che l’ha proposta? No? Allora passa al punto successivo
sai che la petizione che stai sottoscrivendo è un abominio costituzionale ma è anche un’iniziativa che rende buffo e farsesco il tuo approccio politico? No?
FANTASTICO! sei stato selezionato per partecipare alla campagna politica più stupida del mese!
Si tratta comunque di una iniziativa contro il risparmio energetico e perciò assolutamente in linea con le tradizionali idiosincrasie che la destra italiana sembrerebbe avere con il movimento ambientalista: infatti, per mobilitare i simpatizzanti, si impiegano più energie di quante sarebbero servite per raccogliere una decina di senatori da aggiungere al proprio gruppo parlamentare al fine di far mettere al voto una mozione di sfiducia…
Finzione e realtà. Parte II
Fortunatamente però ci sono anche buone notizie…
A decorrere dal 1° gennaio 2022 le firme e i dati di cui al secondo comma dell’articolo 8 della legge 25 maggio 1970, n. 352, possono essere raccolti, tramite la piattaforma di cui al comma 341, in forma digitale ovvero tramite strumentazione elettronica con le modalità previste dall’articolo 20, comma 1-bis, del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. Le firme digitali non sono soggette all’autenticazione di cui al terzo comma dell’articolo 8 della legge 25 maggio 1970, n. 352.
LEGGE 30 dicembre 2020, n. 178 Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023. art.344
Grazie all’inserimento di alcune modifiche alla legge di bilancio promosse dall’on Giusy Versace e in seguito all’iniziativa giudiziaria di Marco Staderini che nel novembre del 2019 ha fatto condannare l’Italia dal Comitato diritti umani dell’ONU (a causa degli “ostacoli irragionevoli” imposti dalla legge ai promotori di referendum), il Parlamento ha finalmente introdotto la firma telematica, per richiedere un referendum o, come già avviene per le ECI europee, le leggi di iniziativa popolare. Si tratta di una conquista di cui si è parlato troppo poco ma che, oltre a consentire una più ampia partecipazione per quegli elettori disabili o soggetti a scarsa mobilità (è stata infatti promossa fortemente dall’associazione Luca Coscioni), apre uno sconfinato spazio politico per le iniziative di democrazia diretta quali le leggi di iniziativa parlamentare o la proposta dei referendum. Non subito, purtroppo, ma solo dal 1 gennaio del 2022.
Definire l’attivismo digitale
Con “attivismo digitale”, un’espressione che non tutti condividono preferendo quella di attivismo cibernetico o hacktivism, intendiamo perciò un tipo di iniziativa caratterizzata da alcuni aspetti comuni quali:
un prevalente contributo di carattere volontario,
un’impostazione ideologica, civica o politica di natura non-violenta
un’operatività necessariamente basata (totalmente o parzialmente) su un impiego massivo degli strumenti digitali,
una consapevolezza del quadro normativo che consente di fare leva sui meccanismi previsti dalla legge o sulle debolezze procedurali del sistema, al fine di incidere sulla realtà “non digitale”,
e infine, anche se non strettamente necessario, una finalità orientata all’affermazione di diritti soggetti all’utilizzo, alla negazione o all’abuso di strumenti digitali.
In questo quadro possono essere considerate forme di attivismo digitale alcune delle iniziative che hanno visto la luce in quest’ultimo periodo, come:
[edit 8 settembre 2022] le iniziative portate avanti nel progetto MonitoraPA
[edit 8 settembre 2022] le iniziative di sottoscrizione dei referendum per la cannabis legale e l’eutanasia legale, portati avanti da Marco Cappato tramite l’Associazione Luca Coscioni e l’associazione Eumans, nelle quali l’impiego della firma digitale accessibile tramite SPID ha consentito di presentare i quesiti referendari alla Corte Costituzionale,
[edit 8 settembre 2022] le iniziative promosse dagli stessi attori in merito alla presentazione della lista elettorale Referendum e Democrazia tramite firma digitale,
la promozione di leggi di iniziativa popolare (ECI, iniziativa dei cittadini europei) da presentare alla Commissione Europea, così come previsto dall’ordinamento comunitario,
[edit 8 settembre 2022] le proteste che, a seguito del varo del Decreto Capienze, hanno portato all’organizzazione del Privacy Pride come prima manifestazione di piazza per rivendicare la privacy come diritto umano.
Naturalmente le iniziative mirate a violare i sistemi informatici allo scopo di raccogliere consenso o di danneggiare l’avversario, non può essere considerate come semplice attivismo ma costituiscono un vero e proprio atto di natura ostile e pericolosa che può essere definito come un vero e proprio gesto di cyberguerrilla o di cyberterrorismo, a prescindere dalla legittimità morale dell’atto stesso.
Allo stesso modo, forme particolari di “attivismo on line” come la sottoscrizione di petizioni on line o il mail bombing o i tentativi di far andare in tendenza particolari hashtag sui social non possono essere pienamente considerati “attivismo digitale”, mancando di quell’apparato progettuale in grado di fare pressione sulla realtà “non digitale”, oltre al fatto che, spesso, drenano risorse ed energia all’attivismo vero e proprio.
Ecco perché bisognerebbe lasciar perdere le petizioni on line e concentrarsi sulle reali opportunità che si sono aperte e su quelle che si potranno aprire grazie a questi nuovi strumenti di democrazia diretta [edit 8 settembre 2022] o alle potenzialità degli strumenti di supporto alle richieste di accesso generalizzato.
Hacktivism, democrazia diretta, partecipazione
Fenomeni quali hacktivism, democrazia diretta, partecipazione viaggiano spesso su strade differenti a causa della difficoltà di ricondurle su un unico piano.
Come spesso accade, tuttavia, è la realtà tende a riportare rivoli diversi in un unico fiume, quello dell’universo digitale, un nuovo corso (trent’anni di digitalizzazione di massa sono un battito di ciglia nella storia) in cui le regole si stanno delineando in base ai rapporti di forza dei principali attori, come è sempre avvenuto in qualsiasi realtà sociale.
Il cosiddetto hacktivism (o attivismo digitale, o attivismo cibernetico) è in definitiva un modo per usare gli strumenti digitali per irrompere nella realtà e determinarne sia un aumento di consapevolezza sia un cambiamento. I fenomeni della democrazia diretta e della partecipazione sono invece strumenti di cambiamento dei processi deliberativi e di quelli della concertazione tra portatori di interesse.
Quando gli ultimi due si avvalgono degli strumenti tecnologici disponibili, diventa però difficile distinguerli da quello che viene definito con l’espressione hacktivism.
Petizioni: partecipazione e democrazia diretta
Una petizione può essere una semplice raccolta di firme finalizzata a sensibilizzare un’istituzione o un’organizzazione su un particolare argomento ma può anche essere un vero e proprio dispositivo di democrazia diretta e partecipazione.
Negli ordinamenti statali la petizione è spesso una modalità estremamente sottovalutata ma anche l’unica che consenta a un certo numero di cittadini di adire agli atrumenti di democrazia diretta. La stessa raccolta delle firme per la presentazione di quesiti referendari costituisce a tutti gli effetti una petizione, opportunamente normata dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie, per richiedere una consutazione pubblica riservata a tutto l’elettorato.
La petizione riguarda anche la richiesta di discussione di leggi di iniziativa popolare, un istituto che in Italia è stato finalizzato solo in occasione del V-Day tenutosi l’8 e il 9 settembre 2007, ma l’unica volta che il testo di una legge di iniziativa popolare è stato portato in Parlamento, non è stato comunque discusso, non contemplando la Costituzione alcun obbligo in tal senso.
Per i cittadini europei esiste un particolare diritto di iniziativa (ECI) previsto dal Trattato di Lisbona, cui abbiamo accennato a proposito delle due iniziative sul reddito di base e sulla legalizzazione del file sharing.
A una sostanziale ignoranza del pubblico riguardo questi due importanti istituti, fa da contraltare la fequente circolazione di petizioni on line fatte circolare in passato via email e oggi attraverso i sistemi di messaggistica e, soprattutto, attraverso i social network.
Petizioni on line e dati personali
Le petizioni on line possono essere sottoscritte solitamente con nome, cognome e con un riferimento email e sono state impiegate da diversi attivisti e organizzazioni per raccogliere un numero di adesioni enormemente più alto rispetto a qualsiasi petizione cartacea. In alcuni casi hanno effettivamente contribuito addirittura a conseguire l’obiettivo di sensibilizzare i governi, di arrestare la promulgazione di leggi discutibili, di far sospendere a qualche azienda iniziative spregiudicate o campagne pubblicitarie offensive.
Tuttavia la gestione e la rivendita dei dati personali da parte dei principali operatori del settore ha provocato accese critiche da parte di diversi attivisti digitali.
Accumulando dati dai propri utenti e da tutte le petizioni che essi hanno creato o sottoscritto, i gestori delle piattaforme di petizioni on line dispongono di un profilo politico estremamente dettaglliato degli “attivisti” che hanno utilizzato quei servizi.
Tale gestione è giustificata da esigenze di personalizzazione specifiche, alcune piuttosto banali (chi firma una petizione contro un politico di destra sarà interessato ad altre petizioni contro quel politico o contro altri politici di destra), altre molto meno (sembra che chi firma una petizione per i diritti degli animali abbia 2,29 volte più probabilità di firmare una petizione per la giustizia penale e chi firma una petizione per la giustizia penale, ha 6,3 volte più probabilità di firmare una petizione per la giustizia economica e 4,4 volte più probabilità di firmare una petizione per i diritti degli immigrati; e quattro volte più probabilità di firmare una petizione per l’istruzione).
Tali dati però non servono solo a suggerire petizioni in linea con il profilo dell’utente ma anche per associare il profilo a particolari annunci pubblicitari. La gestione di tali introiti è inoltre poco coerente con l’immagine “etica” che queste piattaforme vogliono offrire ai pubblico.
Un’approfondita inchiesta condotta dalla giornalista Cecilia Ferrara e pubblicata su IRPImedia (Investigative Reporting Project Italy) ha infatti sollevato dubbi molto pesanti sulla scarsa attenzione che alcuni di questi gestori hanno mostrato nella gestione finanziaria, avvalendosi di conti correnti ospitati da paesi dotati di sistemi bancari opachi e discutibili.
Il problema principale però non è costituito solo dall’analisi comportamentale dei propri utenti o dalla gestione finanziaria, ma anche dalle preoccupazioni legate alla possibilità che paesi guidati da governi autoritari o insensibili allo stato di diritto possano impadronirsi dei dati degli utenti per perseguitare chi sostiene determinate cause.
Come dimostra la poca prudenza del pubblico dei social network, il mix di dati personali e convinzioni politiche è pericolosissimo per la tutela dei diritti e delle libertà personali.
[EDIT 10/6/2021:] Ad oggi, l’unica alternativa etica che abbiamo individuato nel mondo delle petizioni on line è costituita dalla piattaforma tedesca Open Petition, che sembrerebbe disporre di un modello operativo e di una politica per il trattamento dei dati compatibile con le migliori attese. fatte salve le alternative “etiche”, il punto da affrontare è tuttavia quello delle controindicazioni “politico-sociali” di promuovere un modello come quello delle petizioni on line, il modello cioè del “passivismo”…
[EDIT 5/10/2022:] Abbiamo trovato un interessante thread di Federico Fuga che per la sua chiarezza, merita di essere citato in questo post, con la speranza che la maggior parte dei lettori possono convincersi di quanto sia non solo inutile ma soprattutto dannoso avviare petizioni su change, firmarle e diffonderle presso i nostri contatti:
Hactivism o… passivism?
Esiste infine una questione legata all’ipersollecitazione verso il pubblico, mirata a far prendere posizione attraverso una spinta emotiva forte, ma con un coinvolgimento complessivo molto debole: nel mondo anglosassone questo approccio viene chiamato slaktivism (dall’unione delle parole inglesi slacker e activism, letteralmente “attivismo per fannulloni”) o clicktivism (o, alle nostre latitudini, attivismo da divano).
Se in sé può sembrare un aspetto poco più che colorito, lo slacktivism può nascondere insidie pericolose: Micah White sul Guardian sostiene a ben vedere che “scambiando la sostanza dell’attivismo con banalità riformiste che vanno bene nei test di mercato, i clicktivisti danneggiano ogni movimento politico autentico che toccano“.
Gli effetti di questa deresponsabilizzazione a portata di click non sono tuttavia solo quelli di una diluizione dell’attivismo tradizionale e di una negazione vera e propria della partecipazione attiva, come suggerito da White ma possono determinare un recupero grezzo (e non lavorato) di quel tipo di cittadino più pericoloso per la democrazia: quello che si tiene lontano dalla democrazia perché la ritiene troppo faticosa.
Democrazia diretta e strumenti digitali
Prima di giungere alla conclusione è opportuno accennare brevemente non tanto all’argomento costituito dalla democrazia diretta, che merita di essere affrontato con ben altri strumenti intellettuali e culturali, ma a due aspetti particolari della democrazia diretta esercitata (come oggi è necessario fare) attraverso strumenti digitali: quello della preparazione culturale dei partecipanti e quello della proprietà delle piattaforme di voto.
I cittadini che si avvalgono di strumenti di democrazia diretta deve essere non solo educati all’impiego dello strumento ma anche motivati politicamente e civilmente per acquisire quelle competenze di cittadino e di soggetto sociale che consentiranno loro di essere una comunità e non solo un’utenza.
Il rischio di produrre un’utenza disordinata è sempre molto alto e può essere superato solo con una scommessa sulla effettiva maturità di quell’insieme di soggetti. I sostenitori di un movimento politico possono essere un buon punto di partenza perché condividono almeno la motivazione di base e alcuni valori programmatici comuni ma a questo punto entra il gioco il secondo aspetto critico: la proprietà degli strumenti di aggregazione e voto.
Il caso della “piattaforma” Rousseau è stato oggetto di numerose critiche proprio nello specifico della proprietà dell’applicativo ma anche riguardo all’architettura software, chiusa e conosciuta solo ai proprietari della piattaforma.
Il “patto sociale” tra gli iscritti e la proprietà (non importa qui se del partito o della piattaforma) si fonda in questo caso sulla cieca fiducia che gli uni ripongono nell’altra ma come è stato sostenuto dai promotori del progetto Decidiamo, in una lettera aperta pubbicata sul quotidiano Domani, “Non dovrebbe essere previsto statutariamente che il Sistema Operativo informatico appartenga ad una specifica organizzazione bensì dovrebbe appartenere al MoVimento, che ne fissa le specifiche funzionali e realizzato/erogato da un fornitore (che potrebbe essere l’Associazione Rousseau). Il finanziamento del funzionamento della piattaforma dovrebbe essere trasparente. Il software dovrebbe essere a codice aperto ed ispezionabile, dovrebbe offrire la possibilità agli iscritti di verificare il proprio voto e certificato da una primaria società internazionale di sicurezza informatica“.
Chiaramente, i proprietari di una piattaforma chiusa dispongono di un controllo politico di carattere flussometrico, comportamentale e predittivo. Di fatto, un controllo totale sulla linea politica della comunità ma con la possibilità aggiuntiva di far ricadere le scelte e le responsabilità sugli iscritti.
Manipolazione e “abstention mining”
Se a tutto ciò si aggiunge la possibilità di rendere più determinanti i soggetti meno preparati all’esercizio del controllo democratico, emerge chiaramente come una tale comunità rischi di diventare una sorta di laboratorio peggiocratico.
Quando un cittadino non è pronto a prender parte attivamete ai processi democratici, si rende urgente e necessario spendere energie e risorse per istruirlo e prepararlo. Solitamente, per una specie di disegno intelligente della democrazia (o più probabilmente per una semplice conseguenza evolutiva dei gruppi sociali) i cittadini meno pronti sono anche quelli che spontaneamente si astengono dalla partecipazione attiva.
Questo è certamente un male: si priva la democrazia di potenziali risorse utili ad alimentare e a diversificare la “popolazione democratica”. Ma se ragioniamo sulla base della stabilità democratica, questo è anche un bene: l’ingresso massivo e quasi forzato di persone meno preparate nel gioco democratico porta sicuramente a una certa a instabilità.
Allo stesso modo, l’astensionismo è una malattia dei sistemi democratici, eppure bisogna ammettere che i cittadini più orientati all’astensione sono generalmente quelli meno adatti all’esercizio della democrazia. L’esperienza comune ci suggerisce che le persone meno propense a votare tendono a convinzioni e prese di posizione più irrazionali e fallaci rispetto a quelle della popolazione assiduamente legata al “rituale civile” del voto.
Lo scenario in cui il virtuale viene utilizzato come volano per portare gli individui meno preparati a partecipare ai processi democratici apparentemente ludici (quali sembrano quelli del voto elettronico) ma estremamente reali negli effetti, può trasformarsi in un acceleratore di particelle da usare per bombardare ad altissima energia qualsiasi barriera democratica.
Finzione e realtà. Parte I
Una recente iniziativa politico-comunicativa, che sta funzionando come un’estrattore di incompetenti, sembrerebbe proprio includere tutti gli ingredienti principali di cui si è parlato: la petizione, il clicktivism, la selezione e la motivazione di un elettorato impreparato.
Il meccanismo è semplice e possiamo sottoporlo a un processo di reverse engineering interessante:
Si tratta comunque di una iniziativa contro il risparmio energetico e perciò assolutamente in linea con le tradizionali idiosincrasie che la destra italiana sembrerebbe avere con il movimento ambientalista: infatti, per mobilitare i simpatizzanti, si impiegano più energie di quante sarebbero servite per raccogliere una decina di senatori da aggiungere al proprio gruppo parlamentare al fine di far mettere al voto una mozione di sfiducia…
Finzione e realtà. Parte II
Fortunatamente però ci sono anche buone notizie…
Grazie all’inserimento di alcune modifiche alla legge di bilancio promosse dall’on Giusy Versace e in seguito all’iniziativa giudiziaria di Marco Staderini che nel novembre del 2019 ha fatto condannare l’Italia dal Comitato diritti umani dell’ONU (a causa degli “ostacoli irragionevoli” imposti dalla legge ai promotori di referendum), il Parlamento ha finalmente introdotto la firma telematica, per richiedere un referendum o, come già avviene per le ECI europee, le leggi di iniziativa popolare. Si tratta di una conquista di cui si è parlato troppo poco ma che, oltre a consentire una più ampia partecipazione per quegli elettori disabili o soggetti a scarsa mobilità (è stata infatti promossa fortemente dall’associazione Luca Coscioni), apre uno sconfinato spazio politico per le iniziative di democrazia diretta quali le leggi di iniziativa parlamentare o la proposta dei referendum. Non subito, purtroppo, ma solo dal 1 gennaio del 2022.
Definire l’attivismo digitale
Con “attivismo digitale”, un’espressione che non tutti condividono preferendo quella di attivismo cibernetico o hacktivism, intendiamo perciò un tipo di iniziativa caratterizzata da alcuni aspetti comuni quali:
In questo quadro possono essere considerate forme di attivismo digitale alcune delle iniziative che hanno visto la luce in quest’ultimo periodo, come:
Naturalmente le iniziative mirate a violare i sistemi informatici allo scopo di raccogliere consenso o di danneggiare l’avversario, non può essere considerate come semplice attivismo ma costituiscono un vero e proprio atto di natura ostile e pericolosa che può essere definito come un vero e proprio gesto di cyberguerrilla o di cyberterrorismo, a prescindere dalla legittimità morale dell’atto stesso.
Allo stesso modo, forme particolari di “attivismo on line” come la sottoscrizione di petizioni on line o il mail bombing o i tentativi di far andare in tendenza particolari hashtag sui social non possono essere pienamente considerati “attivismo digitale”, mancando di quell’apparato progettuale in grado di fare pressione sulla realtà “non digitale”, oltre al fatto che, spesso, drenano risorse ed energia all’attivismo vero e proprio.
Ecco perché bisognerebbe lasciar perdere le petizioni on line e concentrarsi sulle reali opportunità che si sono aperte e su quelle che si potranno aprire grazie a questi nuovi strumenti di democrazia diretta [edit 8 settembre 2022] o alle potenzialità degli strumenti di supporto alle richieste di accesso generalizzato.