L’equivoco del darwinismo sociale
Selezione naturale è l’espressione che definisce un processo naturale, individuato da Charles Darwin nel 1859 nel libro L’origine delle specie, che svolge un ruolo decisivo nell’evoluzione delle specie viventi e che comporta un aumento degli individui dotati delle caratteristiche più adatte alle condizioni ambientali.
La riduzione del concetto alla semplice “lotta per l’esistenza” degli organismi ha però portato a una serie di equivoci, soprattutto presso chi ha voluto correlare la teoria della selezione naturale con l’ambito della concorrenza sociale, portando quindi nell’immaginario collettivo l’idea per cui chiunque non si adatti, viene sconfitto dalla società.
Da qui nasce il teorema per cui, se sopravvive solo chi è più adatto, allora chi sopravvive è il più adatto; il ché comporta tutta una serie di corollari che affermano:
– la superiorità di chi si adatta,
– la considerazione per cui chi sopravvive meglio è superiore in quanto più adatto
– e soprattutto la conclusione che chi vive ai limiti della sopravvivenza è oggettivamente destinato a soccombere perché… così vuole la Natura, o così vuole lo stesso Darwin (una sorta di Verbo in cui si è incarnata la Legge di Natura).
In realtà molti dei concetti alla base di questa teoria, anche denominata darwinismo sociale, nascono da un completo travisamento di carattere finalistico (il ché è paradossale) della concezione darwiniana.
Infatti la teoria della selezione naturale nasce soprattutto per fornire un quadro interpretativo per la controintuitiva complessità e sorprendente differenziazione delle diverse forme di vita sulla terra; ma l’intuizione di Darwin ha una caratteristica particolarmente affascinante, in quanto non funziona soltanto per spiegare ciò per cui è stata pensata, ma funziona benissimo come una teoria della complessità che può diradare le nebbie del finalismo (qual era il progetto?) così da farci focalizzare meglio sul funzionamento del meccanismo (quan è stato il processo?).
non è l’affermazione più vera o la più intelligente a proliferare, ma quella più adatta all’ambiente in cui circola
Non sorprende quindi quanto l’abuso del concetto di adattabilità sia particolarmente “adatto” a un ambiente sociale sempre meno empatico e sempre più misurato dal metro del “successo”; un successo che serve per dimostrare che “la Natura tifa per me” (dal Dio degli Eserciti passando per il “vincismo” calvinista analizzato da Weber, il credersi prediletto ha sempre confortato l’autostima degli uomini…), perché, tanto per rimanere nel solco della lezione darwiniana, possiamo spiegare certi fraintendimenti con il principio che non è l’affermazione più vera o la più intelligente a proliferare, ma quella più adatta all’ambiente in cui circola.
Il punto è che l’adattabilità darwiniana, non nasce in seguito a uno sforzo consapevole del soggetto di adattarsi al cambiamento dell’ambiente, ma è semplicemente una condizione particolare che preesiste al cambiamento. L’uomo fatica a interiorizzare questa visione per ragioni storiche e sociali (e in un certo senso anche evolutive: il finalismo è proprio una categoria della nostra mente) e preferisce guardare alla realtà come se fosse uno zodiaco da interpretare, più che un cielo stellato di cui comprendere il moto.
Alla fine, malgrado l’uomo sia l’unico essere vivente che sia stato in grado di modificare consapevolmente l’ambiente in cui vive, “Darwin” ha convinto (non certo volontariamente) molti uomini che la chiave del successo è vivere adattandosi al proprio ambiente. Possibilmente adottando pratiche asociali.
I danni provocati da questa visione del mondo sono tanto più imponenti, tanto più sono condivisi: se sempre più persone si convincono che adattarsi sia necessario, allora il risultato sarà una enorme massa di persone che si muovono, pensano, comprano e producono nello stesso modo.
Se però dovessimo imparare qualcosa dalla teoria della selezione naturale, dovremmo invece concentrarci su qualcosa di molto più importante e verificabile: ciò che rende veramente adattabile una società è proprio la varietà delle diversità che lo compongono.
È possibile applicare questa teoria alle organizzazioni sociali, senza le patetiche inclinazioni del classico darwinismo sociale? Naturalmente, pur con qualche cautela, la risposta non puà essere che sì.
ciò che rende veramente adattabile una società è proprio la varietà delle diversità che lo compongono
Addirittura vi sono direttive europee che riguardano l’organizzazione di alcuni enti economici (per esempio la 2013/36/UE conosciuta come Crd IV o la 2014/65/UE ossia la famigerata Mifid 2) che cercano di stigmatizzare il “fenomeno della mentalità di gruppo” e che suggeriscono di superarla attraverso la creazione di condizioni che promuovano la “varietà di punti di vista e di esperienze”.
Le raccomandazioni europee sembrano veramente richiamare Darwin e il concetto della “diversità come risorsa” quando sostengono che un ambiente diversificato risponde alle sollecitazioni meglio di uno non diversificato, diminuendo le probabilità di fallimento.
la diversità sarà la migliore risorsa per trovare risposte diverse alle esigenze che potrebbero presentarsi
L’unica teoria sociale di carattere evoluzionistico che dovrebbe essere chiamata propriamente darwinismo sociale, è quindi quella che ci suggerisce di mantenere il pluralismo nelle organizzazioni, nei gruppi sociali, nei collettivi, nelle istituzioni rappresentative: la diversità sarà la migliore risorsa per trovare risposte diverse alle esigenze che potrebbero presentarsi.
Lo stato di salute della democrazia alla luce della teoria darwiniana
La democrazia è teoricamente il sistema politico che garantisce la massima variabilità. Gli stessi concetti di opposizione, dissenso, pluralismo, negoziazione, concertazione, bilanciamento dei poteri, legislatura a tempo determinato costituiscono una significativa realizzazione sociale del principio di variabilità, ma è proprio il numero e il ricambio anagrafico degli elettori e degli eletti (e recentemente, con il taglio dei parlamentari, abbiamo purtroppo fatto enormi passi indietro) a rappresentare il serbatoio potenziale di quella diversità in grado di sbloccare alcune fisiologiche “anchilosi” della società: la violazione della sfera privata, il totalitarismo, la scarsa mobilità sociale, la concentrazione delle risorse, il consolidamento dei monopoli, il conformismo, l’indottrinamento, l’immobilismo, la recessione, l’intolleranza, la segretezza, la censura e l’ignoranza diffusa. Per la precisione, noi le consideriamo come “malattie” a causa di una sensibilità fortemente condizionata da anni di democrazia, ma una visione laica e aperta, dovrebbe consentirci di vederle per quello che sono: semplicemente altre variabili. Variabili che potrebbero addirittura rendere una società più adatta all’ambiente circostante.
Quante volte infatti abbiamo sentito dire che i regimi autoritari sono più adatti alle sfide della modernità (per esempio a proposito della Cina) e che dovremmo guardare con maggiore attenzione e apertura a quei modelli? Non si tratta di una nuova e brillante intuizione, come ben sanno coloro che hanno vissuto nel periodo della guerra fredda, ma costituisce anzi una riflessione che all’interno delle democrazie ha sempre coesistito e combattuto con l’orgoglio democratico, fin dalle seduzioni che l’oligarchia spartana esercitava sulla società di Atene, quello strano esperimento così diverso dal nostro concetto di democrazia che quasi si fa fatica a considerarlo l’antenato ancestrale. Questa riflessione antidemocratica è parte anch’essa della democrazia ed è infatti la testimonianza di come le società democratiche riescano a esprimere un pensiero arborescente, ampio e a volte contraddittorio.
Il regime democratico infatti non costituisce mai una condizione statica, ma un sistema dinamico di riconoscimento, gestione e bilanciamento dei conflitti tra le diverse parti della società. E, se teniamo ben presente la lezione darwiniana, abbiamo ben chiaro che un qualsiasi tipo di regime può rivelarsi più adatto a un particolare ambiente storico, ma solo una “piena democrazia” è in grado di esprimere al proprio interno quelle diversità, quelle risorse che la rendono resiliente ai cambiamenti dell’ambiente, cambiamenti che, lo sappiamo, avvengono sempre e non possono non avvenire.
Il regime democratico infatti non costituisce mai una condizione statica, ma un sistema dinamico di riconoscimento, gestione e bilanciamento dei conflitti tra le diverse parti della società
Una “piena democrazia” allora non sarà un particolare ordinamento costituzionale, quanto soprattutto un regime in cui venga garantito il pieno sviluppo di alcune condizioni: la salvaguardia della sfera privata, il bilanciamento dei diritti e doveri e quello tra i poteri che caratterizza lo stato di diritto, la mobilità sociale, redistribuzione delle risorse, lo scardinamento dei monopoli, il pluralismo, il pensiero laico, il riformismo, lo sviluppo di nuovi modelli economici, la tolleranza verso le diversità, la trasparenza, la libera circolazione di idee e, soprattutto, l’istruzione come presupposto necessario per l’accesso alla conoscenza.
La “selezione naturale” e i movimenti politici nella democrazia rappresentativa
I movimenti politici sono aggregazioni sociali che si formano intorno a delle idee e sono generalmente guidate da una dirigenza che, più o meno capace di interpretare la realtà, imprime al movimento una linea politica e ideologica. Naturalmente non possiamo equiparare un movimento politico a una “specie” biologica perché nel movimento politico è presente uno sforzo volontario di adattarsi all’ambiente; tuttavia è possibile valutare quanto la loro variabilità abbia influito sulla capacità di rendere quello sforzo più o meno efficace.
Negli anni 90, per esempio, quella sorta di endogamia tipica del mondo comunista (partito, sindacato, associazioni) ha fatto sì che, dopo l’autodistruzione del pentapartito, quasi nessuna nuova risorsa politica proveniente dalla società civile, contribuisse al consolidamento del PDS fuori dalla propria zona comoda.
Una chiusura questa che ha contribuito fortemente ad attrarre quelle risorse nella struttura “rotariana” di Forza Italia che, grazie a tutte le piccole Vanna Marchi di provincia, è riuscita a far proliferare in autonomia anche quelle “sezioni” così lontane da Arcore o da Via dell’Umiltà.
Allo stesso modo, la sapiente capacità dell’imprenditore lombardo-veneto nel sembrare un operaio e nel veicolare una narrazione antisindacale condivisibile dai propri dipendenti, ha contribuito a creare all’interno della Lega lo zoccolo duro dell’elettorato operaio che tanto ha consentito di sopravvivere durante la trasformazione del Carroccio da movimento localista federalista e libertario, a partito nazionalista.
Anche nell’ultimo decennio abbiamo potuto riscontrare come le principali organizzazioni politiche abbiano potuto contare sulla variabilità come risorsa. Naturalmente ogni partito si è caratterizzato per un particolare modello nutrizionale.
Il modello nutrizionale del Movimento 5 Stelle è chiaramente quello saprofita: ha infatti provveduto alla raccolta indifferenziata di soggetti scontenti e soggetti emarginati dalla politica sotto un unico slogan. Questa variabilità ha contribuito durante la legislatura 2013-2018 non solo a tenere insieme anime diverse ogni qualvolta si esprimeva la linea politica dettata dalla Srl controllante, ma a consolidare nel pubblico l’idea di un movimento la cui linea politica era espressione degli iscritti. Alle elezioni del 2018 tuttavia, le condizioni ambientali interne (il mobbing verso i dissenzienti, le violazioni informatiche, la firma del contratto di fedeltà) hanno reso insostenibile la sopravvivenza dei candidati più indipendenti e meno controllabili, per lasciare in tal modo la maggior parte dello spazio a tipologie standardizzate: minions, esperti di sopravvivenza e persone con bassa autostima. Il risultato è stato quello di produrre un partito che pur costituendo un terzo del parlamento non conta già più nulla.
Praticando invece un modello nutrizionale simbionte, la destra continua a godere di ottima salute anche durante le fasi più sofferte (scandali sessuali, rapporti con la criminalità organizzata, una ridottissima assenza di personalità credibili) probabilmente grazie al fatto che è costituita da componenti molto differenziate tra loro, che si rivolgono ciascuna al proprio elettorato ma, alla prova dei fatti, spesso disponibili a concertare la propria azione politica. Inoltre è costituita da comunità socialmente molto diversificate in base alla localizzazione geografica, ma con il fattore comune di avere una dirigenza fortemente legata all’imprenditoria locale, in un incessante e gratificante do ut des, un aspetto questo che offre una spregiudicatezza e una variabilità non comune nelle altre formazioni politiche.
Il Partito Democratico resta invece un esempio brillante di capacità di adattamento basata sul modello parassita. L’incapacità di essere attrattivo per gli esponenti della società civile ha condotto a una sorta di endogamia che ha portato a un basso tasso di fertilità e a un alto tasso di malformazioni. Si è reso quindi necessario un processo di cooptazione. Già nel 96, l’esperimento dell’Ulivo costituiva un precursore di questa tendenza che poi si è affermata ancora di più con Veltroni. La capacità maggiore sta nel fatto di riuscire a lasciare aperti degli slot sia a destra, concedendo significativi spazi di manovra al centrismo più indistinguibile da quello degli alleati della destra, sia a sinistra, attingendo con fredda spregiudicatezza tra i giovani più promettenti che emergono tra i partitini irrilevanti che compongono un vastissimo e frammentato arcipelago privo di rappresentanza parlamentare. In questo modello, il PD compensa la propria scarsa variabilità, con la variabilità delle aree politiche da cui risucchia risorse, elettori e talvolta qualche frontman. Naturalmente alcune volte modello parassita presenta qualche rischio, perché il partito è così debole che durante la cooptazione magari si fa scalare anche da un sindaco democristiano di provincia; tuttavia questo modello ha consentito a un partito la cui linea politica dominante è assecondare l’esistente, una straordinaria persistenza nel tempo e il conseguimento dell’obiettivo di stare al governo almeno una volta in cinque delle ultime sei legislature.
La variabilità detestata
Che sia o no sostenibile di qui alla fine della legislatura, il “vantaggio evolutivo” che, nell’ambiente attuale, contraddistingue due dei tre blocchi politici maggiori (il M5S come lo conosciamo è chiaramente destinato alla dissoluzione) non lascia al momento intravedere molto spazio ad altre esperienze politiche.
Può essere utile tuttavia analizzare dal punto di vista “darwiniano” che questo sistema non sembra vantaggioso per la nostra società, ma occorre capire anche quali siano i punti di forza e i punti deboli dell’attuale sistema e quali potrebbero essere gli elementi in grado di creare condizioni per una nuova “offerta politica”.
Partire dall’assunto per cui una società è tanto più democratica e resilliente quanto più è aperta e variabile, può essere opportuno riprendere quei “valori standard della democrazia” già ricordati in precedenza e capire cosa ne rende difficile l’affermazione:
- la salvaguardia della sfera privata: viene avvertita spesso come una rivendicazione dei privilegiati o dei criminali
- il bilanciamento dei diritti e doveri e quello tra i poteri che caratterizza lo stato di diritto: non è apprezzabile se non in una società sensibile allo stato di diritto
- la mobilità sociale: slogan fallimentare se si afferma la narrazione per cui “chi è più indietro mi può superare”
- la redistribuzione delle risorse: benché sia alla base di qualsiasi tipo di assistenza sociale e sanitaria, il concetto perde molto del proprio fascino quando ci si focalizza sull’interrogativo “e se le risorse da distribuire sono le mie?”
- lo scardinamento dei monopoli: difficile da accettare quando ci sentiamo rassicurati da quei monopoli
- il pluralismo: non è un valore agibile in un periodo in cui la diffidenza verso “l’altro” è ai massimi livelli
- il pensiero laico: controproducente in un paese bigotto in cui “laico” è per forza qualcosa che fa piangere Gesù
- il riformismo: termine abusato al punto da sembrare ormai solo un sinonimo di “devastazione dello stato sociale”
- lo sviluppo di nuovi modelli economici: non aiuta il fatto che con questa espressione si intende quasi sempre la riproposizione di modelli economici settecenteschi
- la tolleranza verso le diversità: sfortunatamente basta pronunciare le parole meticciato e gender per creare un cordone sanitario intorno a questo concetto
- la trasparenza: le pratiche attuali la fanno sembrare più rumore informativo che accesso alla conoscenza
- la libera circolazione di idee: sembra concetto da manipolare con attenzione, alla luce del fatto che di solito ci piace solo un’idea (la nostra),
- l’istruzione come presupposto necessario per l’accesso alla conoscenza: incredibilmente, nell’immaginario collettivo, quello che dovrebbe essere l’aspetto più importante di una democrazia, viene sempre correlato a presunte moltitudini di insegnanti nullafacenti e non licenziabili che drenano risorse pubbliche.
È risaputo comunque che la comunicazione politica in democrazia può veicolare l’affermazione di certi valori virtuosi solo se è inserita in un elettorato attento e preparato e, in ogni caso, nessuna comunicazione politica può basarsi sui valori, perché (proprio per ragioni evolutive) la mente umana non riesce a “immaginare” facilmente un concetto ma è molto più orientata a immaginare un’azione o un oggetto.
Hackerare Darwin
La domanda che bisognerebbe porsi è quindi se sia possibile tentare di sfruttare la conoscenza dei meccanismi analizzati da Darwin per sfruttare le vulnerabilità della società al fine di modificarla e renderla così più adatta alle sfide del futuro e più protettiva e vantaggiosa per i suoi membri.
Prima di tutto è necessario cercare di capire quali soggetti sono più “adatti” a farlo, ma bisogna rendersi conto di quali siano i principi fondamentali su cui si basa la selezione sociale partendo da quelli della teoria originale:
- il principio della variazione, che afferma che tra gli individui di una popolazione esiste una variabilità dei caratteri; questo ci ricorda che non possiamo sapere chi sia il più adatto, ma sappiamo che maggiore è la diversità in un gruppo e maggiore è la possibilità che vi siano individui più adatti.
- il principio dell’adattamento, secondo il quale alcuni individui (i “più adatti” all’ambiente) presentano caratteri che offrono un vantaggio di sopravvivenza e di riproduzione e, di conseguenza, i loro tratti fenotipici diventano prevalenti nella popolazione; il ché fa capire quanto sia fondamentale la conoscenza ampia e laica dell’ambiente per interpretarne il rischio selettivo.
- il principio dell’ereditarietà, che individua nei geni l’origine della variabilità delle caratteristiche fenotipiche trasmissibili ai discendenti per mezzo della riproduzione; la necessità della riproduzione è l’elemento che deve mettere in allerta da qualsiasi meccanismo che preveda di privilegiare il consolidamento di élites che (Pareto insegna) potrebbero esprimere il loro lato infanticida, cibandosi come Krono dei propri figli per mantenere la leadership.
Un movimento politico, per garantire la vitalità della propria dirigenza, deve probabilmente ampliarla possibilmente a tutta la base degli iscritti.
Ma se lo stato di salute interno di un movimento è importante, lo è anche la sua capacità di adattamento all’ambiente politico. In tal senso è importante individuare una base di rappresentanza ampia ma anche variata, possibilmente tra quelle fasce della popolazioni e quelle classi sociali che costituiscono il serbatoio energetico latente della società e che tendono già a ricevere dalla politica e dalle istituzioni meno rispetto a quanto non ricevano.
Naturalmente un modello politico di questo tipo dovrà essere compatibile con il benessere e la pace sociale della popolazione e con l’interesse della Nazione in generale, e pertanto sarebbe opportuno evitare di insistere su teorie economico-sociali insostenibili che potrebbero portare non solo alla perdita di consenso ma, cosa ben più grave, al collasso della società stessa.
è importante individuare una base di rappresentanza ampia ma anche variata
La pars destruens
Se decidiamo di costruire un ponte sicuro e ampio e ci accorgiamo che possiamo costruirlo solo dove ce n’è già uno vecchio e pericolante, è chiaro che l’unica opzione praticabile è abbattere quello vecchio, possibilmente facendo attenzione che i detriti non inquinino le acque e impediscano di procedere con la costruzione del nuovo ponte.
astinenza programmatica e completa da qualsiasi apparentamento con forze politiche attualmente presenti in Parlamento
Allo stesso modo l’unico modo per creare oggi un ponte tra le istituzioni e la società è praticare una demolizione controllata e irreversibile dei partiti attuali: questo significa affermare una astinenza programmatica e completa da qualsiasi apparentamento con forze politiche attualmente presenti in Parlamento.
Se è vero che, soprattutto nel quadro di una legge elettorale che rende necessarie e obbligatorie le alleanze parlamentari, non bisogna precludersi a nessun tipo di alleanza e, anzi, possibilmente palesare in anticipo i termini delle eventualli e probabili alleanze future, sarà opportuno fare in modo che le uniche alleanze elettorali possibili devono essere stabilite con forze politiche non rappresentate in Parlamento, anche se si trattasse di forze caratterizzate da linee politiche diverse (anzi, dal punto di vista darwiniano, questo contrinìbuirà ad arricchire anche il dibattito elettorale).
Perché le forze politiche in parlamento sono i dinosauri e noi siamo quei mammiferi che non possono competere con la loro forza attuale. Ma almeno quei piccoli mammiferi non erano così “stupidi” da votare per i dinosauri e, siccome stavolta nessun asteroide ci verrà ad aiutare, conviene che almeno ce ne liberiamo da soli senza avvantaggiarli.
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