Stavolta però a speronare le istituzioni non è stato un aereo bensì una vera e propria “Nave dei Folli” il cui equipaggio ha puntato dritto verso il simbolo della democrazia statunitense e, con un inaspettato successo, è riuscito ad abbatterne i muri portanti.
“Il mondo non sarà più lo stesso!”. Stavolta non abbiamo sentito questa esclamazione di orrore, ma è chiaro che, come dimostrano gli attuali sviluppi, forse è stato il caso di pensare a questa eventualità.
Non vogliamo qui però concentrare la nostra attenzione sugli aspetti squisitamente politico-istituzionali della vicenda, né sulla sottovalutazione del malcontento espresso dal cosiddetto “white trash“, né ancora sugli evidenti limiti di carattere costituzionale che gli USA hanno dimostrato durante questo inaspettato attacco alle istituzioni, né infine su quanto sia possibile individuare con facilità chi ha interpretato il ruolo di Pietro l’Eremita in questa “crociata dei pezzenti” 2.0. L’aspetto da approfondire in questa sede è più che altro quello sulle ricadute che la vicenda potrà avere dal punto di vista tecnologico e sociale.
Il ban di Twitter e Facebook all’ancora presidente Trump
Premettiamo intanto che siamo completamente d’accordo con la cancellazione dei tweet e dei post del presidente Trump.
Da una parte infatti è opportuno riflettere che, così come è legalmente possibile incriminare Donald Trump per aver incitato via social i manifestanti, tanto più potrebbe essere possibile incriminare la proprietà di Twitter per aver amplificato gli inviti di Trump.
Il fatto che questa responsabilità non sia mai stata sollevata per i grandi social, non significa tuttavia che non sia considerata possibile dai rispettivi uffici legali e il fatto che nessun social network abbia mai parlato di questa motivazione non sembra essere un argomento contrario a questa ipotesi, quanto più una scelta piuttosto ovvia.
Riteniamo quindi che, almeno dal punto di vista della tutela societaria, la decisione di interrompere il servizio per tutelarsi da conseguenze legali sia assolutamente legittima.
Dal punto di vista dell’opportunità invece il dibattito insiste su più aspetti:
cancellare le dichiarazioni di Trump è stata una violazione della libertà di parola
MA la libertà di parola non deve essere garantita a chi la usa per incitare alla sovversione delle istituzioni democratiche
EPPURE, solo un giudice e non una piattaforma privata può decidere chi e quando incita alla sovversione delle istituzioni
MA ancora, una piattaforma editoriale anche se privata ha la responsabilità di sapere quando intervenire
TUTTAVIA delegare a una piattaforma privata parte della gestione dell’ordine pubblico (posse comitatus) è un precedente pericoloso
MA ancora, come alcuni giuristi ritengono, una piattaforma editoriale privata di rilevanza globale deve essere equiparata a un servizio di rilevanza pubblica, attraverso una regolazione puntuale, restrittiva per la piattaforma e garantista per l’utenza.
Un vero pirata dovrebbe essere contro ogni forma di censura, ma bisogna ammettere che quella operata dai grandi social network non può essere considerata tecnicamente censura. La censura è infatti un provvedimento pubblico operato dallo Stato in base a un preciso ordinamento giuridico. Non per questo tuttavia è meno pericolosa e odiosa.
Resta il fatto che sussiste un problema enorme che, come di consueto, non è legato al quid ma piuttosto al quantum: le piattaforme globali hanno infatti una ricaduta globale; se non si interviene per depotenziarne la portata globale, le istituzioni democratiche e la società rischieranno di essere condizionate al di là della legittimità dell’applicazione delle regole.
Ed è proprio qui che la “vocazione pirata” dovrebbe farsi sentire con forza.
le piattaforme globali hanno una ricaduta globale; se non si interviene per depotenziarne la portata globale, le istituzioni democratiche e la società rischieranno di essere condizionate al di là della legittimità dell’applicazione delle regole
Cosa possiamo fare?
Come ha scritto Bruno Saetta su ValigiaBlù, “A me personalmente ha colpito il fatto che tanti abbiano sostenuto l’idea che occorra ormai un intervento sui social perché facciano di più. Mi ha colpito perché è proprio il percorso che da anni i governi nazionali e transnazionali hanno intrapreso da tempo, e che, purtroppo, ha già evidenziato ampiamente i suoi limiti. In breve sono anni che la politica delega alle grandi piattaforme del web parte dei propri compiti di regolamentazione politica e sociale.“
Ora ad essere problematico prima di ogni altro problema è proprio la grandezza di queste piattaforme e a renderle grandi non sono né i politici né i giudici ma gli utenti.
Abbiamo segnalato già in un altro post l’importanza di segnalare alternative ai software più utilizzati e questa importanza si rende ancor più urgente nel caso delle piattaforme sociali e nei sistemi di messaggistica.
La tendenza della massa a convergere sulla soluzione più utilizzata porta in sé una serie di complicazioni architetturali della società dell’informazione: noi cittadini abbiamo il dovere civico di diffondere soluzioni alternative, di usarle affinché le comunità di sviluppatori si sentano motivate a svilupparle e perfezionarle, di farle diventare “reali” con l’abitudine e l’utilizzo e, infine, di usarne più di una: sia per vincere la nostra naturale pigrizia a restare nella zona comoda, sia per aumentare i nostri potenziali canali di comunicazione.
Al momento esistono moltissimi social alternativi, spesso basati su piattaforme open source e sulla logica della federazione (il fediverse) anche se francamente, tra tutti, Mastodon (l’alternativa a Twitter) sembra essere l’unica a possedere caratteristiche ergonomiche e strutturali abbastanza mature per costituire una valida opzione “per tutti”.
Il 6 gennaio è come se il quarto aereo dell’11 settembre, quello diretto a Washington ma mai giunto a destinazione, si fosse schiantato sul palazzo del Congresso degli Stati Uniti.
Stavolta però a speronare le istituzioni non è stato un aereo bensì una vera e propria “Nave dei Folli” il cui equipaggio ha puntato dritto verso il simbolo della democrazia statunitense e, con un inaspettato successo, è riuscito ad abbatterne i muri portanti.
“Il mondo non sarà più lo stesso!”. Stavolta non abbiamo sentito questa esclamazione di orrore, ma è chiaro che, come dimostrano gli attuali sviluppi, forse è stato il caso di pensare a questa eventualità.
Non vogliamo qui però concentrare la nostra attenzione sugli aspetti squisitamente politico-istituzionali della vicenda, né sulla sottovalutazione del malcontento espresso dal cosiddetto “white trash“, né ancora sugli evidenti limiti di carattere costituzionale che gli USA hanno dimostrato durante questo inaspettato attacco alle istituzioni, né infine su quanto sia possibile individuare con facilità chi ha interpretato il ruolo di Pietro l’Eremita in questa “crociata dei pezzenti” 2.0. L’aspetto da approfondire in questa sede è più che altro quello sulle ricadute che la vicenda potrà avere dal punto di vista tecnologico e sociale.
Il ban di Twitter e Facebook all’ancora presidente Trump
Premettiamo intanto che siamo completamente d’accordo con la cancellazione dei tweet e dei post del presidente Trump.
Da una parte infatti è opportuno riflettere che, così come è legalmente possibile incriminare Donald Trump per aver incitato via social i manifestanti, tanto più potrebbe essere possibile incriminare la proprietà di Twitter per aver amplificato gli inviti di Trump.
La responsabilità imputata twitter in caso di disordini è già stata sollevata nel caso delle rivolte di Tottenham del 2011 oltre che in quello delle primavere arabe del 2010, ma questa responsabilità non si è mai trasformata in un vero capo di imputazione, neanche quando il procuratore della contea di St. Louis Robert McCulloch ha voluto alludere alla responsabiilità di twitter nel caso dei disordini di Ferguson.
Il fatto che questa responsabilità non sia mai stata sollevata per i grandi social, non significa tuttavia che non sia considerata possibile dai rispettivi uffici legali e il fatto che nessun social network abbia mai parlato di questa motivazione non sembra essere un argomento contrario a questa ipotesi, quanto più una scelta piuttosto ovvia.
Riteniamo quindi che, almeno dal punto di vista della tutela societaria, la decisione di interrompere il servizio per tutelarsi da conseguenze legali sia assolutamente legittima.
Dal punto di vista dell’opportunità invece il dibattito insiste su più aspetti:
Un vero pirata dovrebbe essere contro ogni forma di censura, ma bisogna ammettere che quella operata dai grandi social network non può essere considerata tecnicamente censura. La censura è infatti un provvedimento pubblico operato dallo Stato in base a un preciso ordinamento giuridico. Non per questo tuttavia è meno pericolosa e odiosa.
Resta il fatto che sussiste un problema enorme che, come di consueto, non è legato al quid ma piuttosto al quantum: le piattaforme globali hanno infatti una ricaduta globale; se non si interviene per depotenziarne la portata globale, le istituzioni democratiche e la società rischieranno di essere condizionate al di là della legittimità dell’applicazione delle regole.
Ed è proprio qui che la “vocazione pirata” dovrebbe farsi sentire con forza.
Cosa possiamo fare?
Come ha scritto Bruno Saetta su ValigiaBlù, “A me personalmente ha colpito il fatto che tanti abbiano sostenuto l’idea che occorra ormai un intervento sui social perché facciano di più. Mi ha colpito perché è proprio il percorso che da anni i governi nazionali e transnazionali hanno intrapreso da tempo, e che, purtroppo, ha già evidenziato ampiamente i suoi limiti. In breve sono anni che la politica delega alle grandi piattaforme del web parte dei propri compiti di regolamentazione politica e sociale.“
Ora ad essere problematico prima di ogni altro problema è proprio la grandezza di queste piattaforme e a renderle grandi non sono né i politici né i giudici ma gli utenti.
Abbiamo segnalato già in un altro post l’importanza di segnalare alternative ai software più utilizzati e questa importanza si rende ancor più urgente nel caso delle piattaforme sociali e nei sistemi di messaggistica.
La tendenza della massa a convergere sulla soluzione più utilizzata porta in sé una serie di complicazioni architetturali della società dell’informazione: noi cittadini abbiamo il dovere civico di diffondere soluzioni alternative, di usarle affinché le comunità di sviluppatori si sentano motivate a svilupparle e perfezionarle, di farle diventare “reali” con l’abitudine e l’utilizzo e, infine, di usarne più di una: sia per vincere la nostra naturale pigrizia a restare nella zona comoda, sia per aumentare i nostri potenziali canali di comunicazione.
Al momento esistono moltissimi social alternativi, spesso basati su piattaforme open source e sulla logica della federazione (il fediverse) anche se francamente, tra tutti, Mastodon (l’alternativa a Twitter) sembra essere l’unica a possedere caratteristiche ergonomiche e strutturali abbastanza mature per costituire una valida opzione “per tutti”.