Chiaramente il problema è sempre esistito ma lo si è voluto deliberatamente ignorare e ora in molti stanno comprendendo che la soluzione non può essere quella di combattere colpo su colpo alle eventuali e imprevedibili mosse future dei social network globali e delle piattaforme di comunicazione che non garantiscono né pluralismo, né riservatezza: l’unica possibilità è quella di “mirare alla testa” di tutti quegli onnipotenti giganti che potrebbero far sparire mezzo universo con uno schiocco di dita.
Il non-caso di “Libero” e de “Il Manifesto”
Sull’onda di questa improvvisa ipersensibilizzazione hanno fatto discutere due episodi, in sé poco significativi ma molto interessanti per le ricadute mediatiche: stiamo parlando del blocco temporaneo dell’account twitter di Libero, un giornale di destra molto apprezzato dai lettori più sensibili alle teorie del complotto e alle fake news più improbabili, e dell’eliminazione dal Play Store di Google dell’app di uno dei giornali più apprezzati dalla sinistra italiana, ossia Il Manifesto, quotidiano (o di quel che ne resta) ormai relegato alla pubblicazione web.
In realtà il blocco su twitter di Libero, come è stato spiegato, non dovrebbe essere stato causato da questioni di contenuto ma più probabilmente dal fatto che l’impiego di particolari tool di pubblicazione su Twitter hanno fatto scattare un allarme cautelativo che la piattaforma adotta in caso di “attività sospette”. Allo stesso modo, l’estromissione de Il Manifesto dallo store di Google sembrerebbe legata a una non corretta compilazione dei questionari propedeutici alla pubblicazione dell’app.
Qual è la lezione che dovremmo aver imparato?
I due sfortunati incidenti subiti da Libero e da Il Manifesto sono particolarmente odiosi perché riguardano due quotidiani e, qualsiasi cosa si pensi dei contenuti pubblicati, i quotidiani rappresentano ancora un simbolo di libertà per tutta la società; tuttavia bisogna precisare che tali incidenti non possono essere ricondotti alla “censura” da parte di BigTech.
Si dovrebbe anzi aprire una discussione pubblica sul fatto che due importanti quotidiani di opinione sembrano essersi dimostrati molto poco adeguati alle sfide della multimedialità dal momento che sono stati probabilmente causa del proprio stesso danno, ma soprattutto anche perché non sono stati in grado di informare correttamente sulle cause del blocco subito. Forse per una testata giornalistica, sarebbe ora di avvalersi di uno staff di social media manager e di sistemisti all’altezza della propria fama!
Resta però una questione aperta e molto più grave: l’esistenza on line delle nostre testate giornalistiche è precaria, debole, totalmente in mano al sistema delle BigTech; forse ancora più debole rispetto a quella dei propri lettori!
Forse per una testata giornalistica, sarebbe ora di avvalersi di uno staff di social media manager e di sistemisti all’altezza della propria fama!
Quale potrebbe essere la soluzione?
Non vogliamo peccare di semplicismo ma, a nostro parere, si rende necessario per tutta l’editoria italiana iniziare a progettare una via di fuga, così come già suggerito su queste pagine per i comuni utenti.
Ecco qualche idea:
Abbandonare da subito il sistema di annunci pubblicitari legato a fornitori monopolisti, potenzialmente vincolanti e sempre molto poco rispettosi della privacy dei lettori. Il caso della radiotelevisione dei Paesi Bassi dovrebbe essere studiato da tutti gli operatori del settore!
Le redazioni dovrebbero assumere sistemisti e social media manager esperti e pagarli bene (oltre che pagare meglio gli stessi redattori…)
Le redazioni dovrebbero iniziare a pensare a costituire una istanza federata di microblogging come Mastodon (una eccellente alternativa a Twitter). Una istanza per tutti i giornali italiani, oppure una per ciascun gruppo editoriale: i lettori potrebbero commentare liberamente da altre istanze Mastodon oppure iscrivendosi direttamente sull’istanza dello stesso giornale.
Un cambio di paradigma di questo tipo sarebbe tra le altre cose un’eccellente dimostrazione che il valore informativo e libertario della stampa è ancora vivo!
Il ban di Trump dai principali social network e la disintegrazione di tutta la community di Parler ha portato a unanimi reazioni di consenso con qualche lodevole eccezione sia da parte di personaggi di spicco come il cancelliere tedesco Angela Merkel (che ha sollevato forti perplessità sull’opportunità di concedere a un social network la possibilità di censurare un capo di stato) o l’avvocato e giornalista Glenn Greenwald (che ha dimostrato come il caso Parler è un segnale della pericolosa onnipotenza dei fornitori monopolisti dell’informazione). Quello che è certo è che la soglia di attenzione del pubblico nei confronti della precarietà della propria esistenza digitale si è indiscutibilmente alzata.
Chiaramente il problema è sempre esistito ma lo si è voluto deliberatamente ignorare e ora in molti stanno comprendendo che la soluzione non può essere quella di combattere colpo su colpo alle eventuali e
imprevedibili mosse future dei social network globali e delle piattaforme di comunicazione che non garantiscono né pluralismo, né riservatezza: l’unica possibilità è quella di “mirare alla testa” di tutti quegli onnipotenti giganti che potrebbero far sparire mezzo universo con uno schiocco di dita.Il non-caso di “Libero” e de “Il Manifesto”
Sull’onda di questa improvvisa ipersensibilizzazione hanno fatto discutere due episodi, in sé poco significativi ma molto interessanti per le ricadute mediatiche: stiamo parlando del blocco temporaneo dell’account twitter di Libero, un giornale di destra molto apprezzato dai lettori più sensibili alle teorie del complotto e alle fake news più improbabili, e dell’eliminazione dal Play Store di Google dell’app di uno dei giornali più apprezzati dalla sinistra italiana, ossia Il Manifesto, quotidiano (o di quel che ne resta) ormai relegato alla pubblicazione web.
In realtà il blocco su twitter di Libero, come è stato spiegato, non dovrebbe essere stato causato da questioni di contenuto ma più probabilmente dal fatto che l’impiego di particolari tool di pubblicazione su Twitter hanno fatto scattare un allarme cautelativo che la piattaforma adotta in caso di “attività sospette”. Allo stesso modo, l’estromissione de Il Manifesto dallo store di Google sembrerebbe legata a una non corretta compilazione dei questionari propedeutici alla pubblicazione dell’app.
Qual è la lezione che dovremmo aver imparato?
I due sfortunati incidenti subiti da Libero e da Il Manifesto sono particolarmente odiosi perché riguardano due quotidiani e, qualsiasi cosa si pensi dei contenuti pubblicati, i quotidiani rappresentano ancora un simbolo di libertà per tutta la società; tuttavia bisogna precisare che tali incidenti non possono essere ricondotti alla “censura” da parte di BigTech.
Si dovrebbe anzi aprire una discussione pubblica sul fatto che due importanti quotidiani di opinione sembrano essersi dimostrati molto poco adeguati alle sfide della multimedialità dal momento che sono stati probabilmente causa del proprio stesso danno, ma soprattutto anche perché non sono stati in grado di informare correttamente sulle cause del blocco subito. Forse per una testata giornalistica, sarebbe ora di avvalersi di uno staff di social media manager e di sistemisti all’altezza della propria fama!
Resta però una questione aperta e molto più grave: l’esistenza on line delle nostre testate giornalistiche è precaria, debole, totalmente in mano al sistema delle BigTech; forse ancora più debole rispetto a quella dei propri lettori!
Quale potrebbe essere la soluzione?
Non vogliamo peccare di semplicismo ma, a nostro parere, si rende necessario per tutta l’editoria italiana iniziare a progettare una via di fuga, così come già suggerito su queste pagine per i comuni utenti.
Ecco qualche idea:
Un cambio di paradigma di questo tipo sarebbe tra le altre cose un’eccellente dimostrazione che il valore informativo e libertario della stampa è ancora vivo!